Foto di Jean-Louis SERVAIS da Pixabay
C'è un momento magico, al mare, che adoro più di ogni altro. È quando, dopo tanto tempo, mi tolgo le scarpe e i piedi incontrano finalmente la sabbia. Quel contatto genera un brivido, una sensazione di puro rilascio che mi riempie di piacere. Forse anche tu conosci questa sensazione, o quella voglia irrefrenabile di riconnetterti con la natura. In questo articolo, voglio condividere con te il perché questo semplice gesto, il radicamento (earthing), sia così vitale. Ti racconterò storie che mi hanno toccato nel profondo e scopriremo insieme i potenziali benefici scientifici di questo contatto, dalla riduzione dello stress al miglioramento del benessere. Lasciati ispirare a riscoprire la magia di sentirsi un tutt'uno con la Terra.
C'è un momento magico, al mare, che adoro più di ogni altro. È quando, dopo tanto tempo, mi tolgo le scarpe e i piedi incontrano finalmente la sabbia. Quel contatto genera un brivido che attraversa il corpo, una sensazione di puro rilascio. È una di quelle piccole gioie della vita che mi riempiono di piacere, proprio come il primo tuffo nell'acqua fresca del mare. Anche solo a ripensarci, in questo momento, mi viene voglia di fare un respiro profondo e scappare via, direttamente in spiaggia.
Adoro camminare scalza. Appena se ne presenta l'occasione, mi libero dei calzari e bacio la terra con i piedi. Anni fa, lessi un'incantevole intervista a una sciamana sudamericana che raccontava un episodio della sua infanzia. All'età di sei o sette anni, fu costretta a indossare le scarpe per la prima volta per andare a scuola. Ricordava vividamente quella sensazione di non riuscire a camminare, di avvertire instabilità ed essere spaesata, di non trovare l'equilibrio e di sentirsi quasi cieca: i suoi piedi non riconoscevano più la strada.
Quanto mi colpì quell’intervista!
Un'altra storia che mi ha profondamente colpito, tratta dal libro "Camminare" di Erling Kagge, è quella di Andrew Bastawrous, un medico inglese. Da adolescente, lesse un articolo su persone che perdevano la vista per mancanza di cure e decise di diventare oculista. Molti anni dopo, si trasferì nell'Africa orientale, dove allestì una clinica itinerante che si spostava di villaggio in villaggio.
Un giorno, in Kenya, mentre lui e i suoi colleghi stavano per terminare le visite, arrivò Maria, una giovane non vedente, con la sua bambina di sei mesi in braccio. Maria viveva a un paio di villaggi di distanza e, sapendo che la clinica sarebbe rimasta solo un giorno, era partita all'alba per non perdere l'occasione. Non aveva mai attraversato una strada trafficata e quella prima volta fu "terrificante": sentiva camion e auto sfrecciarle accanto, avvertendo spaventosi spostamenti d'aria. Attese terrorizzata sul ciglio della strada sperando in un aiuto, ma nessuno si avvicinò. Alla fine, si fece coraggio e si "lanciò" letteralmente in avanti, stringendo la bambina al petto, finché i suoi piedi non toccarono di nuovo l'erba, e capì di essere salva con la sua piccola. Anche le ore successive furono difficili, tra cadute, lacrime e confusione.
Quando arrivò alla clinica, le sembrò un miracolo. Fu visitata e le riscontrarono una semplice congiuntivite. La mattina dopo fu operata a entrambi gli occhi e recuperò la vista in poche ore, vedendo per la prima volta sua figlia.
La riaccompagnarono a casa in macchina, ma Maria non conosceva l'indirizzo; conosceva solo alcuni dettagli. Guidarono a lungo, poiché era abituata a "vedere" senza gli occhi, e i suoi piedi e il suo corpo erano stati, fino al giorno prima, la sua "bussola", e ora che aveva riacquistato la vista aveva difficoltà ad orientarsi. Finalmente, incrociarono una vicina che la riconobbe e le indicò la strada, giunsero al villaggio. Maria si avvicinò a un gruppo di adulti e bambini, piena di emozione ed entusiasmo, e iniziò a chiedere chi fossero i suoi figli e il marito, che le si fecero subito avanti mentre lei li vedeva per la prima volta.
Le storie che ti ho raccontato mi toccano profondamente. Le porto nel cuore come un promemoria costante di quanto sia vitale riconnettersi con la Terra, un contatto che sentiamo di aver smarrito. Ci siamo allontanati dalla Natura non appena ci siamo stabiliti nelle città, isolandoci con indumenti e calzature artificiali. Questa distanza si è accentuata quando abbiamo iniziato a usare repellenti sulla pelle o a piazzare trappole per eliminare le specie che ci infastidiscono. Ci siamo convinti di avere il diritto di decidere quali forme di vita debbano esistere su questo pianeta, basandoci solo sulle nostre preferenze o su ciò che riteniamo più utile.
Siamo arrivati a un punto in cui tutto ci infastidisce: la terra sotto i piedi, la sabbia tra le dita, persino il canto delle cicale, la mosca, la vespa, le formiche. Non ci fermiamo più a osservare ciò che ci circonda, la vita che pulsa sotto di noi e intorno a noi. Abbiamo perso la capacità di emozionarci di fronte a un tramonto mozzafiato, al lavoro instancabile di un'ape o al fucsia brillante di una Bouganville.
Ma perché è successo tutto questo? Perché ci siamo allontanati dalla meraviglia del creato? È forse una questione di controllo, di superficialità, o magari di paura?
Ma allora, cosa possiamo fare noi, nel nostro quotidiano, per ritrovare quel contatto profondo con la Terra? Come possiamo ritrovare quel radicamento, quel senso di earthing che ci riporta naturalmente a noi stessi e a ciò che siamo?
Basta davvero poco, qualche semplice gesto consapevole, per iniziare a curare la nostra relazione con la Natura e con noi stessi. Pensiamo a quando incontriamo la Terra con la nostra pelle. Arriviamo in spiaggia, nel bosco, in giardino o al parco, e ci fermiamo un attimo. Osserviamo le sensazioni del nostro corpo mentre indossiamo le scarpe. Poi le togliamo e, di nuovo, osserviamo attentamente le sensazioni che i nostri piedi provano nell'incontrare la terra. Rimaniamo immersi in quelle percezioni, nel contatto della nostra pelle con ciò che ci circonda. E così via, in ogni situazione.
Questi semplici modi di connettersi con la Natura sono conosciuti come Radicamento o Earthing: la pratica di mettere il proprio corpo a contatto diretto con la Terra. Si tratta semplicemente di camminare a piedi nudi su sabbia, terra o erba, o anche solo di toccare un elemento naturale qualsiasi. In questo modo, avviene un vero e proprio scambio di energia tra noi e il pianeta, uno scambio che ci permette di beneficiare di numerosi vantaggi per il nostro benessere e di instaurare un dialogo profondo con la sacralità della Natura.
L'Earthing, o radicamento, quel contatto diretto con la superficie elettrica della Terra, ci permette di ristabilire una connessione naturale.
Ma cosa ci dice la scienza riguardo a ciò che accade al nostro corpo quando entra in contatto con la Terra? L'Earthing si basa sul concetto di elettroni liberi, di cui sembra che la Terra sia un gigantesco serbatoio. Questi elettroni, con la loro carica negativa, al contatto con il corpo iniziano a fluire liberamente al suo interno, agendo come veri e propri antiossidanti naturali.
Nel nostro corpo, i radicali liberi sono molecole instabili che possono causare danni cellulari e infiammazione. Vengono prodotti naturalmente come sottoprodotti del metabolismo, ma possono anche essere generati da fattori esterni come l'inquinamento, lo stress e una dieta sbilanciata. Gli elettroni della Terra, essendo carichi negativamente, sarebbero in grado di neutralizzare questi radicali liberi a carica positiva, riducendo così lo stress ossidativo e l'infiammazione.
È importante sottolineare che si tratta di ricerche ad uno stadio ancora iniziale, che richiedono ulteriori e approfonditi studi. Tuttavia, i risultati ottenuti finora sono molto promettenti.
L'Earthing, o radicamento, offre una serie di benefici interessanti: la ricerca suggerisce che il contatto con la Terra possa, come già detto prima, ridurre l'infiammazione neutralizzando i radicali liberi, portando a un miglioramento del sonno e alla diminuzione del dolore cronico. Inoltre, si è osservato un abbassamento dei livelli di stress con un conseguente miglioramento dell'umore, benefici per la salute cardiovascolare grazie alla riduzione della viscosità del sangue, un'accelerazione nella guarigione delle ferite e una regolazione positiva del sistema immunitario..
Al di là delle conferme scientifiche, che accogliamo con piacere, ciò che conta veramente è l'esperienza personale. Non c'è prova più valida ed efficace del provare sulla propria pelle il contatto con la Terra.
Se camminare scalzi, insieme ad altre modalità di immergersi nella natura, rappresentasse per noi la grande opportunità di esplorare il potenziale del nostro corpo? Da quando pratico il Forest Bathing, porto un'attenzione crescente al corpo, e camminare a piedi nudi è diventata per me una straordinaria occasione di connessione e benessere.
E se anche tu volessi scoprire questi benefici? Ti invito a fare un piccolo passo: prova a toglierti le scarpe e a sentire la terra sotto i tuoi piedi. Oppure fermati ad accarezzare un albero o un fiore con attenzione cosciente. Potresti sorprenderti di quanto sia semplice e profondo questo gesto.
Per approfondimenti sulle scoperte scientifiche sui benefici del radicamento di suggerisco le seguenti letture:
Chevalier G, Sinatra ST, Oschman JL, Sokal K, Sokal P. Earthing: health implications of reconnecting the human body to the Earth's surface electrons. J Environ Public Health. 2012;2012:291543.
Chevalier G, Oschman JL, Sokal K, Sokal P. The effects of grounding (earthing) on inflammation, the immune response, wound healing, and prevention and treatment of chronic inflammatory and autoimmune diseases. J Inflamm Res. 2015 Apr 24;8:169-76.
Chevalier G, Sinatra ST. The effect of grounding the human body on mood and stress. Psychol Rep. 2004 Aug;95(1):319-24.
Koniver Laura, The Earth Prescription.
Per me, camminare è molto più di un semplice movimento: è una profonda metafora dell'esistenza. Non ho mai corso, preferendo il passo lento che riflette il mio mondo interiore e funge spesso da terapia. Attraverso il cammino, soprattutto quando mi concedo di "errare" e perdermi, scopro una via per l'esplorazione e l'autoconoscenza, trovando inaspettate "magie" e integrando il paesaggio in me.
È da giorni che mi frulla in testa questo verbo e mi rendo conto che si tratta di un argomento vastissimo, ci si potrebbero scrivere libri a riguardo, e di fatto ci sono tanti libri che ne parlano, ma voglio almeno cercare di trasmetterti l’essenza delle mie riflessioni, almeno di una parte di esse e poi, nel caso, parlarne ancora in futuro se ti fa piacere.
Per me “camminare” e tutte le sue sfumature - lo spostarsi da A a B, muovere passi, l’ andare, avanzare, retrocedere, persino esitare - non sono semplici movimenti fisici. Sono quasi la metafora dell’esistenza e del vivere la vita.
Amo profondamente camminare, è un'attività che mi risuona nel profondo. Per me, è sempre stato fondamentale identificarmi come una "camminatrice" e mai come una "corridora". Non ho mai corso in vita mia, e credo sia proprio una questione di modo di essere.
Il camminare riflette molto di più il mio mondo interiore. Posso anche abbandonarmi a un ritmo veloce, ma mai alla corsa. In effetti, non so correre, e trovo la cosa piuttosto divertente: almeno io rido di me stessa quando ci provo, ma anche gli altri.
Ci sono stati tanti momenti della mia vita nei quali camminare si è rivelata una terapia, come se mi avesse proprio aiutato ad andare avanti. Camminavo per chilometri, in Natura, in città, spesso senza meta ma con l’unico scopo di cacciare pensieri e pesantezza. Capita anche a te di “camminare per dimenticare”? Ricordo un mio professore del Liceo che faceva avanti e indietro nel corridoio della scuola, anche durante l’ora di lezione, usciva dalla classe e camminava tutto curvo, come costretto da un peso invisibile, un enorme macigno. Chissà cosa lo tormentava, me lo sono sempre chiesta. Sembrava un moderno Atlante, ma ahimè senza neanche la forza fisica per sorreggere tutto quel peso. Mentre ricordo il professore mi torna alla mente una frase di Fernando Pessoa: “Ho mal di testa e d’Universo”, e penso che quello fosse proprio il suo stato d’animo. Mi capita ancora oggi di incontrare camminatori seriali e solitari, saranno forse anche loro alla ricerca di pace e conforto?
È indubbio che camminare faccia bene, sia a livello fisico che mentale ed emotivo, ma pensi che sia solo questo o che ci sia qualcosa di più? Qualcosa che forse non è misurabile sulla base di parametri certi ma che semplicemente accade ed è magia?
Simbolicamente camminare può evocare e rappresentare tantissimo. Può essere intrinsecamente legato all’esplorazione del mondo, e questo va ben oltre lo spostamento fisico. Quando ti muovi a piedi, sia in Natura che in altri contesti, ogni passo diventa un atto di scoperta. Non si tratta alla fine di raggiungere una destinazione, ma di godere appieno di ogni passo e di ogni momento. È un modo di integrare in te il paesaggio, di renderlo tuo in qualche modo attraverso l’esperienza diretta. Il corpo diventa allora uno strumento di percezione e ogni esplorazione diventa un’occasione di conoscenza, autoconoscenza e arricchimento. A volte ho l’impressione che i piedi siano forniti di memoria e che esplorare un luogo a piedi, con il ritmo e le pause giuste, senza premura, anche perdendosi, sia il modo più efficace per accogliere le impressioni di quel luogo e tenerle con sé.
La parola "errare" mi ha sempre affascinato. È così ricca di sfumature, capace di esprimere due concetti apparentemente opposti: il vagare, l'andare senza una meta precisa, e l'allontanarsi dalla via, il commettere uno sbaglio. Ma è davvero uno sbaglio? Chi può dirlo con certezza? Forse è solo una semplice deviazione rispetto a ciò che era stato stabilito. Quando vado a fare sopralluoghi per me è quasi fondamentale “perdermi” nel senso proprio di spingermi oltre l’itinerario stabilito. È come se mi consentisse di avere una conoscenza ampliata e sferica del luogo, è più una sensazione, ma per me è quasi fondamentale. Un po’ come avventurarsi nell’ignoto.
L’altro giorno, di ritorno da un sopralluogo a Bolotana, ho intravisto l’ingresso di un bosco e non ho resistito. Ho parcheggiato la macchina e mi sono avventurata, completamente sola, in un’atmosfera quasi surreale.
All'interno c’erano alcuni alberi Madre, così imponenti da dominare la scena, circondati da altri alberi che sembravano quasi riuniti in veri e propri clan. Ad un tratto ho sentito un fruscio di foglie, un passo di quadrupede. Il mio primo pensiero è stato: ”un cane”. Invece, con mia grande sorpresa, ho visto una magnifica volpe che si muoveva con grazia e completamente incurante della mia presenza. Mi sono fermata ad osservarla mentre zigzagava tra i tronchi, marcava il suo territorio, curiosava tra le foglie secche e poi si allontanava con calma. Non avevo mai visto una volpe così da vicino. Se non mi fossi avventurata nel Bosco non avrei ricevuto un dono così speciale per me.
Quando camminare diventa esplorare, concedersi di deviare, di avventurarsi nell’ignoto, di uscire dalla routine e abbracciare l’inaspettato, facciamo esperienze davvero significative e che ci toccano profondamente. Lo sconosciuto spesso regala magie e doni. E tu? Ti senti camminatore esploratore, camminatrice esploratrice? Aspetto di leggere i tuoi racconti. Scrivimeli qui 📝
Mi avvicino a una quercia secolare, un incontro che mi avvolge in un abbraccio di pace. Nelle sue fattezze di anziano contadino, con occhi profondi come la terra, rivedo l'uomo che piantava gli alberi e la saggezza di mio nonno Salvatore. La quercia mi sussurra un invito al silenzio e alla pazienza, ricordandomi l'impermanenza e la bellezza effimera della vita. È una danza infinita, un cerchio che onora gli antenati e la Madre Terra, e che ora voglio condividere con voi.
Mi avvicino a passo spedito e con una certa emozione.
Sul cartello che indica la strada c’è scritto “Quercia secolare”, lo vedo svettare da lontano.
Ridiscendo il sentierino contorto e vi sono davanti, ci incontriamo per la terza volta.
Il tronco è maestoso, l’altezza notevole, mi avvolge in un abbraccio di pace e tranquillità.
Appare con le sembianze di un anziano contadino, un uomo saggio che ha affidato le sue parole alla terra. Porta un cappello e un bel paio di baffi d’altri tempi, i suoi abiti sono semplici; indossa pantaloni e un gilet di velluto chiaro, una camicia bianca.
Quello che mi colpisce di più sono i suoi occhi, riempiono di dolcezza tutto quello su cui si posano e sono profondi e scuri come la terra. Un sorriso appena accennato.
Le fattezze e i modi mi ricordano Elzéard Bouffier, il protagonista del racconto di Jean Giono, del 1953, “L’uomo che piantava gli alberi”, che divenne anche un cortometraggio ad opera di Frédéric Back, nel 1987.
Nel racconto, il protagonista raccoglieva e selezionava semi, soprattutto ghiande, che poi piantava prima in una nursery e poi direttamente nei monti e nelle valli francesi, riportandovi così la foresta, l’acqua, la vita e la gioia.
Il silenzio di cui mi parla è quella pacatezza che accompagna chi ha compreso il mistero della natura, della vita e dei popoli. Quel silenzio umile e rispettoso di chi conosce la terra, di chi sa aspettare, di chi si offre senza remore, e in egual misura, alla brezza e alla tempesta, al caldo e al freddo, all’acqua e all’aridità, al sole e alla luna, alla luce e al buio.
E della pazienza, “silenzio e pazienza” mi dice, “spesso le parole e le domande sono di troppo quando la fede è forte, perché sotto questo cielo tutto è impermanente, tutto è in divenire. Una danza infinita di vita, offerta, morte e ancora vita che altro non è che mutevole ed effimera Bellezza.”
E mentre mi perdo nel suo sguardo, si fa vivo il ricordo di mio nonno Salvatore, “Saivadore Ruiu”, che aveva quella stessa dolcezza negli occhi, anche se i suoi erano color del mare. Sempre presente nei ricordi di mia madre che me ne parla ogni volta che chiacchieriamo di Terra e di Alberi.
Mi racconta di come “Babbu” si inchinasse, ginocchia a terra, davanti alla vite prima di potarla.
Di come offrisse un filare della vigna agli uccelli del cielo affinché se ne cibassero, perché la generosità della terra è per tutti.
E poi di come versasse un po’ del suo vino dal bicchiere al suolo, come offerta alla Madre Terra, in segno di rispetto e gratitudine.
Così questa Quercia maestosa, nelle sembianze di un contadino, mi offre un altro grande dono e, nel ricordo, riporta in vita mio nonno, che ha solo cambiato forma ma che continua a danzare, anche attraverso di me.
Anche la Quercia, oggi possente, lascerà andare un giorno il corpo stanco alla valle. Sarà ancora riparo e nutrimento per chi ne avrà bisogno e continuerà a vivere, sempre uguale e sempre diversa.
Sotto le stelle e sotto il sole accade sempre quello che deve accadere, le cose vanno e ritornano, ma non sono mai esattamente uguali. A noi non resta che danzare questo cerchio, “unu ballu tundu”, con la pazienza e il silenzio nel cuore.
E io ringrazio e onoro i miei antenati che hanno reso possibile la mia danza. Ringrazio Madre Terra, la mia amica Quercia contadino, mio nonno, mia mamma e voi che leggete.
Grazie 💚🌳
Daniela Manchia Ruiu
Nel vibrante Roseto di Nervi, la Melaleuca stiphelioides, l'albero di carta, mi ha rapita con la sua corteccia che danza e si sfalda, rivelando strati e storie. Un inno alla vita che si rinnova, un dialogo silente con la Natura che mi ha portato a riflettere sul profondo simbolismo della "pelle" della Terra, un confine che ci nutre e ci connette. Un momento di pura gratitudine per la nostra magnifica Madre.
Quando si passeggia in un parco cittadino si ha la fortuna di incontrare alberi che vengono da molto lontano e che si sono adattati al nuovo habitat con forza, tenacia e anche con una certa grazia.
Nel roseto del bellissimo parco di Nervi, a Genova, proprio a ridosso della ferrovia e del mare, si nota una corteccia danzante e chiara, che spicca fra un gruppo di rugosi Ulivi. Si tratta di una Melaleuca stiphelioides, parente stretta della ben più nota Melaleuca alternifolia, ovvero tea tree. Probabilmente vi è noto il suo olio essenziale, forse fra i più utilizzati e conosciuti.
Mi avvicino. La corteccia si sfalda in strati sottilissimi e quelle parti che rimango ancora un po’ attaccate si muovono al ritmo del vento. E’ conosciuto come albero della carta, proprio per la particolarità della corteccia di dividersi in fogli sottili. Mi ha subito ricordato l’Eucalipto per la stessa leggera capacità di lasciare andare quelle parti che non servono più, senza attaccarvisi ostinatamente. Entrambi depositano pezzi di corteccia al suolo, che diventeranno nutrimento per chi vorrà cibarsene, esponendo le parti più inesperte alla Vita.
La sensazione al tatto è gradevole: parti lisce e vellutate si alternano ad altre più spesse e rugose. Mi ricorda la pelle, soffice come quella di un bimbo e spessa e dura come quella di chi non teme le intemperie. Anche le pieghette nel punto d’incontro fra il tronco e i suoi rami ricordano la pelle di braccia e gambe che si flettono.
E così accanto a questo nuovo amico medito su luoghi lontani, su viaggi che sono sempre possibili, sul continuare a sognare. Su piedi che accarezzano terre forse straniere e su tutto questo muoversi sotto un unico cielo.
Rifletto sulla pelle: abito, confine e nutrimento. E vibro di un amore immenso per questa Terra, Madre generosa.
Ricordo vividamente il novembre 2019, la prima volta che ho davvero incontrato il Tasso. Li conoscevo già, certo: sentinelle stoiche nel paesaggio invernale, il loro verde intenso che tagliava il grigio del cielo, le bacche rosse che sfidavano il freddo. Ma c'è una differenza abissale tra "vedere" e "incontrare". Incontrare significa aprirsi all'essenza di un albero, lasciarsi inondare dalla sua presenza.
Quel giorno, un gruppo di tassi mi ha chiamato a sé. L'energia del Taxus baccata mi ha colpita come una tempesta inaspettata, lasciandomi tremante ed esposta. La paura mi ha sfiorata, quasi spingendomi a cercare rifugio in energie più familiari. Ma la freccia era stata scoccata, il viaggio era iniziato.
Il loro messaggio risuonava chiaro: "Non temere. Pensi che io possa farti del male? Voi umani siete così pronti a giudicare. Io offro nutrimento, offro riposo. Scegliereste davvero di vivere per sempre nell'ombra di un altro? Io ti insegno l'indipendenza.
Guarda oltre la superficie. Ogni situazione nasconde profondità. Non affidarti solo all'intelletto: l'intuizione è fondamentale. La crescita emerge da ciò che è stato. Io mi rinnovo costantemente.
Non ho paura della morte, io sono la morte. Sono la transizione, il flusso e riflusso dell'essere. Mi intreccio, ma non mi aggroviglio. Sono indipendente, ma mai veramente solo. Definisco i confini, ascolto, rispetto lo spazio. Prospero negli angoli più bui della foresta, a testimonianza della mia forza. Poche altre piante possono sopravvivere alla mia ombra; io creo una presenza distinta.
Sono velenoso nella maggior parte delle mie parti, eppure la vita prospera accanto a me. I cervi consumano le mie foglie senza alcun danno. Le mie bacche, gli arilli rosso vivo, offrono nutrimento agli uccelli, mentre i semi al loro interno rimangono intatti, affidati alla terra.
È difficile stabilire la mia età. Mi rinnovo costantemente. Nuovi rami emergono dal vecchio, avvolgendo il tronco madre che lentamente decade, creando spazio per il nuovo. Una danza di vita e di morte, il vecchio che nutre il giovane, il giovane che porta vitalità al vecchio. Un miracolo di rinnovamento dalle radici antiche".
Da allora, ho incontrato il Tasso molte volte, in luoghi diversi. Ogni incontro ha rinnovato quell'invito, con la paura dell'ignoto che lottava con il desiderio del mio cuore.
Oggi, il ricordo del Tasso, il mio caro amico Tasso, risiede in me, un'arilla rossa e vibrante nel mio cuore. La paura è svanita.
Il Tasso ha molte storie da raccontare, innumerevoli modi di essere. Se incontrate il Tasso, se vi chiama, non abbiate paura. Avvicinatevi con il cuore aperto, mettete la mano sul suo tronco e ascoltate. Sarà un incontro che non dimenticherete.